IN CUCINA CON LE MIE NONNE

i88142066._szt7_

IN CUCINA CON LE MIE NONNE

 

Ad arricchire i menu casalinghi c’era  il ricettario dei nonni.

 Quelli paterni erano settentrionali come la loro cucina,  mentre quelli materni erano meridionali come i loro piatti.  Questo contribuiva a rendere piuttosto interessante la situazione gastro-culinaria. 

 L’appartamento in cui vivevamo era di proprieta’ dei genitori di mio padre,  che abitavano al piano di sopra, mentre  sul nostro stesso pianerottolo viveva una vecchia zia insieme al suo odioso bassotto.  Questa vicinanza faceva si’ che i contatti fossero molto frequenti e che il su e giu’ per scale e ascensori  facesse parte della nostra vita di bambini quasi che tutto il palazzo fosse un unico, grande parco giochi.  La casa dei miei nonni era piuttosto austera e buia, nei corridoi palpitava un intenso aroma di cera e appena se ne  varcava la soglia bisognava munirsi di pattine di feltro per non offuscare il perenne scintillio dei pavimenti tirati a lucido.  La cucina, come tutte quelle del decennio, era un locale austero, niente fronzoli o colori, una stanza utilizzata unicamente per cucinare e quando il pasto, sempre consumato nella sala da pranzo, terminava, si strofinavano accuratamente fornelli, pareti e ogni superficie lavabile di modo che del cibo non ne restasse neanche l’aroma ma solo un pallido ricordo.   L’ unica nota che  turbava il silenzio quasi irreale di quell’ambiente un po’ cupo, era il ticchettio sommesso dell’orologio a muro.  Non ci stavo volentieri in quella cucina, anzi per dirla tutta mi incuteva un certo timore.  A tavola pero’il discorso cambiava, mia nonna non lesinava sul cibo, la carne non mancava mai, e, quasi a sottolineare il loro maggior benessere, si trattava sempre di vitella mentre a casa nostra si mangiava solo manzo.  Poi, a riprova delle ascendenze nordiche della famiglia, c’erano risotti e capponi, cotolette panate e cotechini e due piatti restati nella storia della gastronomia famigliare: la pizza di bieta e la mitica torta di mele, la cui ricetta fu lasciata in eredita’ ad uno dei miei fratelli che non he ha mai voluto divulgare i particolari. 

Tanto severa era la casa dei miei nonni paterni quanto invece solare e ariosa era quella in cui abitavano quelli materni, e se la cucina dei primi era asettica e inodore, quella dei secondi era invece solare e ricca di aromi. Piu’ di ogni altra cosa a spandersi per tutta la casa era l’inconfondibile aroma del caffe’, cerimonia alla quale  i miei nonni, da bravi meridionali,  non rinunciavano mai.  Quello era il caffe’ migliore che abbia mai assaggiato, anche se ancora troppo piccola per berne intere tazzine, mia nonna me ne dava sempre qualche goccia con molto zucchero, serbato gelosamente in una zuccheriera sbalzata che troneggiava sul frigorifero, pomposa come una regina. L’altra fragranza che si spandeva per le stanze era quella della conserva di pomodoro.  Se c’era infatti qualcosa su cui da bambina sapevo di poter contare era la certezza che nei pranzi di mia nonna non sarebbero mai mancati la pasta al sugo, anzi con la conserva di pomodoro addolcita da una punta di zucchero, e i grissini che mio nonno, che non aveva denti buoni, sbriciolava nella salsa per raccoglierne anche l’ultima stilla.  Erano profumi forti che permeavano la casa anche molte ore dopo che ci eravamo alzati da tavola.

In comune le mie nonne avevano una scarsa passione per la cucina,  lo facevano perche’ dovevano farlo, ma senza particolare entusiasmo.  La nonna Paolina pero’, quella materna,  aveva ai fornelli un’arma segreta: la frittura.  E da brava siciliana friggeva di tutto, carciofi e crocchette, frittelle di riso e frittelle di mele, ricotta e mozzarella, panzerotti e arancini, melanzane e lattarini, patate e cervelletti, quei cervelli oggi quasi scomparsi dalle tavole famigliari e anche da quelle dei ristoranti, considerati invece in quegli anni una vera leccornia.  Allora intorno a quest’organo palpitava un alone quasi magico come se il consumarne grandi quantita’ avesse potuto  risvegliare le nostre menti un po’ intorpidite.  D’altronde ad essere convinto dei poteri magici del cervello, era anche Armandino, la guardia del corpo, nonche’ uomo tuttofare, di Togliatti, assolutamente certo che “Il Migliore” dovesse consumarne almeno uno al giorno per il semplice motivo che a lui spettava il difficile e faticoso compito di “pensare per tutti noi”. 

Comunque sia a me il cervelletto fritto di mia nonna piaceva moltissimo, lei era la “Regina della Frittura” cosi’ come, quasi per dono ereditario, lo sarebbe diventata poi mia madre.  Nessuno friggeva come loro, purtroppo la discendenza rischia l’estinzione perche’ io, per quanto mi sforzi, non sono mai riuscita a raggiungere quelle vette inviolate. 

I nonni  avevano invece in comune una passione smodata per le caramelle: per quello materno erano le Charms, per l’altro invece le Rossana e soprattutto le Baratti che ci elargiva a manciate.  Un altro dei momenti di rapimento gastronomico della mia infanzia lo vissi quando mi regalo’ una grande scatola di legno che conteneva, adagiate tra la rafia come fossero perle preziose,  una collezione di caramelle al mandarino,  perfettamente sferiche e grandi come uova di piccione.  La tenevo ben nascosta sotto il letto perche’ non mi fosse rubata dai fratelli ed ogni sera, quando le luci si spegnevano e me ne stavo rincantucciata nel tepore del mio letto, ne infilavo una in bocca che poi succhiavo lentamente ad occhi chiusi. Quella era la felicita’. 

DA “COSI’ MANGIAVAMO-STEFANIA APHEL BARZINI-EDIZIONI IL GAMBERO ROSSO”

No Comments

Post a Reply