ELOGIO DEL MACELLAIO

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ELOGIO DEL MACELLAIO

DA”CASA FENOGLIO” DI MARISA FENOGLIO- SELLERIO EDITORE

La signora Marisa altra non è che la sorella di Beppe Fenoglio, il dimenticato autore de “Il Partigiano Johnny”.  Qui racconta della sua famiglia piemontese da poco uscita dal nebuloso mondo contadino, colta nello scorcio di tempo italiano che va dagli anni Trenta del letargo fascista ai primi bagliori del miracolo economico.  E questa è la descrizione del suo papà macellaio.

“Dal bancone mio padre troneggiava amichevolmente: sul suo viso mobilissimo le gote erano due pomelli rubizzi, sempre pronti a spostarsi verso l’alto in accattivanti, professionali sorrisi.

I tagli di carne stavano disposti in bella vista sul piano di marmo: lui se li faceva passare da una mano all’altra per soppesarli e mostrarne i pregi.  Li estimava, non diversamente da un gioiellere che decanti la bellezza di un braccialetto, la purezza di pietre preziose e perle a un acquirente facoltoso.  Lo disgustava tuttavia-e non lo nascondeva- la richiesta dell’eterna fettina, sottile sottile, magra magra, che era già allora il desiderio standard del consumatore: ” Madama, lei non ha bisogno di dirmi quello che vuole, io lo so già!” e sbuffando si avviava a testa bassa verso la cella frigorifera, tornandone col pezzo totalmente magro che l’avrebbe soddisfatta.  A volte, specie in assenza di mia madre, non si dava per vinto: “Lei fa un torto alla bestia a comprare sempre solo la fettina! Lei crede di mangiare la parte più nobile e invece mangia la più noiosa!…Altro che fettine ha da offrire l’animale! Se facessimo tutti così, non servirebbe neanche più imparare il mestiere, si dovrebbe buttare via tutto il resto, degradarlo a frattaglie per cani e gatti, e noi macellai metterci di impegno a tagliar sottile, quasi trasparente, sempre lo stesso pezzo…Poveri noi e povera bestia!”. E passava a magnificare l’incomparabile delizia di un bell’arrosto di carne “marmorizzata”, di un bollito misto con lingua, testina e capel da preve…

A lui dell’animale piaceva tutto, anche la trippa, e non solo come leccornia quando viene servita in tavola: a lui piaceva prepararla, fare cioè quel lavoro umile e ingrato che è la pulitura della trippa.  Mondarla, rivoltarla, tagliarla, farla bollire, voleva dire averla tra le mani per ore, tutta viscida, grassa e puzzolente, mentre la nostra cucina-era il luogo dove faceva quel lavoro- si caricava per giorni di un odore pesante e acido che impregnava anche i vestiti.  Tutti in famiglia sapevamo di trippa e noi figli, potendo, avremmo volentieri cambiato casa e fatto cambiare mestiere ai genitori.  Mio padre faceva finta di niente, lavorava con calma, appagato dalla sua perizia, aureolato dall’onesta dignità dell’uomo che esercita il suo mestiere.  E noi lo si stava a sentire increduli, quasi turbati, quando della trippa lodava addirittura una imprevedibile virtù: quella di fargli venire le mani lisce e vellutate come quelle di un signore”.

Eccolo il vero rispetto per gli animali! Io amo quest’uomo!!! (NdA)

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