GASTRONOMIA MOLECOLARE?

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GASTRONOMIA MOLECOLARE?

Qualche anno fa, insieme ad un’amica, feci un lungo viaggio.  Da Chicago a Los Angeles, al volante, stile Thelma e Louise, attraversando tutta l’America sulla Route 66, o meglio su quello che di essa è restato, e nel frattempo registrando un documentario radiofonico per Radio 24 (sì, si fanno anche documentari radiofonici e sono più divertenti da fare di quelli televisivi).  In quegli anni Chicago era la città emergente per ciò che riguarda la gastronomia americana.  Era lì che si sperimentava, sia dal punto di vista architettonico che da quello dei gusti.  Io amo Chicago, insieme a San Francisco e a New Orleans è la mia città preferita degli Stati Uniti.  Chicago ha tutto ciò che si può deisderare da una grande città: architettura geniale, musei tra i più belli del mondo, gente simpatica e alla mano, ottima musica e sì, in quegli anni (ma anche ora) ottimo cibo.  Per questo mi ero data da fare per proporre al Gambero Rosso, già che mi ci trovavo, alcuni pezzi su quelli che al momento erano considerati i ristoranti più innovativi d’America.  Tra questi c’era Moto, di cui si dicevano meraviglie.  Homaro Cantu, lo chef del ristorante, era considerato un emulo di Ferran Adrià e l’enfant prodige della cucina molecolare in America, prima che arrivasse Grant Achaz con il suo Alinea a detronizzarlo.  Avevo preso appuntamento con il personal manager di Cantu (sì in America gli chef, essendo considerati vere rock star, hanno il personal manager) e come tutte le cose americane si era rivelato un affare facilissimo.  Il solo problema era che mi avevano dato appuntamento al ristorante il giorno stesso in cui sarei atterrata negli States.  L’idea non mi entusiasmava, per loro erano le cinque del pomeriggo ma per me sarebbero state le due o le tre di notte.  Non proprio l’ora migliore per consumare una cena di 16 portate.  Non avevo scelta. 

Ma non avrei dovuto preoccuparmi perchè la cena si rivelò essere più che un pasto, una sorta di balletto, in cui a danzare, più che il mio palato erano i giovani camerieri (camerieri? Erano così avvenenti che pensai che in realtà si trattasse di modelli).  Per tutta la durata della cena (lunghissima, circa due ore) i camerieri si lanciarono all’unisono sul mio tavolo, e con movimenti sincronizzati organizzarono bicchieri, posate, piatti e tovaglioli in modi comprensibili solo a loro.  Ad ogni portata la scenografia cambiava: una volta arrivarono con un cuscino (sperai fosse perchè avevano compreso quanto fossi stanca) profumato alla lavanda che doveva accompagnarsi con non so quale piatto, un’altra volta si materializzarono con una sorta di alambicco nel quale gorgogliava del liquido nero che poi si rivelò essere inchiostro di seppia nel quale immergere della carta di riso per poi mangiarla.  Questo è l’unico piatto che ricordo. Già il problema è che non uno dei 16 piatti mi è restato in mente.  Più che porzioni poi si trattava di minuscoli assaggi di cibo che non avevo mai visto prima, e che costringeva i camerieri a lunghissime spiegazioni.  Quello che infatti ricordo bene è che i camerieri presentavano tutti segni di quello che uno psicanalista chiamerebbe “comportamento ossessivo compulsivo”.  Non solo mi spiegavano i piatti, ordinavano anche come mangiarli, come usare le posate, in che ordine assaggiarli, come e dove mettere il tovagliolo, una supervisione costante che mi faceva sentire inadeguata e anche un po’ cretina.  Non è che trovassi orribile ciò che mettevo in bocca.  Avevo capito che lo chef voleva giocare e per un po’ il gioco, la sorpresa, sono anche stati divertenti.  Ma all’8 portata, forse una patata calda  ripiena di zuppa fredda di patate, infilata su uno spiedino insieme ad un cubetto di parmigiano e ad un tartufo, sarà stata la stanchezza del volo, il jet lag o il sonno, sta di fatto che la voglia di giocare mi aveva del tutto abbandonata.  Sognavo solo il mio letto.  Prima della fine della cena si materializzò il manager dello chef, che mi raccontò che Homaro non avrebbe potuto incontrarmi.  Stava infatti poco bene, il medico aveva scoperto che i suoi globuli bianchi erano scesi a livelli minimi, causa uso eccessivo di agenti chimici industriali usati per cucinare.  ” Homaro deve restarsene a casa per un po’-disse il manager- lontano dalla cucina.  E’ un peccato perchè lo chef ama fare i suoi esperimenti, gli piace controllare il cibo e non viceversa”.  Uscita dal ristorante mi buttai tra le lenzuola, stanca ma non sazia.  L’ultimo pensiero prima di addormentarmi fu, quello me lo ricordo:” Ma per quale mai masochistico motivo dovrei rischiare la salute ogni volta che ceno?”. Mettetela come volete, forse è che io sono tra quelli che amano essere posseduti dal cibo  e non viceversa.

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