KAREN BLIXEN E L’ESTASI DEL NON CIBO-PARTE PRIMA

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KAREN BLIXEN E L’ESTASI DEL NON CIBO-PARTE PRIMA

DA: LA SCRITTRICE CUCINAVA QUI”-STEFANAI APHEL BARZINI-EDIZIONI GRIBAUDO

 

Che una delle donne scrittrici di questo libro sia Karen Blixen certo non stupisce, direi anzi che si tratta di scelta scontata e prevedibile.  Come poter infatti non raccontare l’autrice de La Mia Africa, i tramonti fiammeggianti della savana e i grandi falò sui quali cuoce lentamente la selvaggina appena uccisa?  O la Blixen de Il Pranzo di Babette, quello che rimane il libro cult per noi casalinghe inquiete che molto amiamo cucinare? Una scelta dunque quasi banale e che certo non brilla di originalità. Ma le ragioni per cui voglio raccontare questa scrittrice non sono invece né ovvie, né consuete. Più che l’opera infatti, seppur ricca di pagine saporite e profumate, é la donna a incuriosirmi, con il suo cocktail ardito di passione e rinuncia, amore e negazione del cibo.  Già perché Karen che così mirabilmente scrive di cucine, di fragranze di gusti delicati, lei che afferma di non saper fare altro nella vita che cucinare e, forse, scrivere, in realtà nella vita é praticamente anoressica, al punto che il certificato di morte, nel 1962 recita:”causa del decesso: malnutrizione”. Ma anche questo non spiega il mistero di una donna che mostra al mondo un’immagine sempre cangiante, che racchiude in sé mille esistenze, tante quante sono le storie che racconta, che cambia nome come le cipolle cambiano buccia, Karen, Isak, Tanne, Tania, Pierre, Osceola.  Proprio come quelle matrioske russe o quelle scatole cinesi che apri, una dopo l’altra, convinta ogni volta di essere arrivata alla fine.

Karen Christentze Dinesen, poi Baronessa von Blixen-Finecke, nasce a Rungsted, in Danimarca, il 17 Aprile 1885.  Rungsted é una piccola cittadina a circa mezz’ora da Copenhagen, un porticciolo turistico che si affaccia sul Sund, un braccio di mare disseminato di battelli.  Luogo di vacanze che, ancor oggi, vive solo l’estate e quando il tiepido sole del nord abbandona  il campo alla pallida luce dell’inverno, si svuota lasciando chi invece qui ci abita a combattere con il vento gelido e le tempeste di un mare grigio come il piombo e cattivo come una belva affamata.  Rungsteldung, la casa della  famiglia  Dinesen era una volta una locanda settecentesca, oggi  un parco di diciassette ettari, trasformato nel 1958, grazie alla pervicacia di Karen,  in zona protetta, rifugio di uccelli migratori.  E’ questa la casa in cui la scrittrice nasce e in cui muore, in mezzo c’é l’Africa.  L’infanzia di Tanne, questo é il nomignolo che le danno in famiglia, é gioiosa e serena, insieme a fratelli e sorelle, nell’atmosfera magica e incantata di Rungstedlung, in mezzo alla natura, a quei fiori che molto ama: “Io credo che i fiori siano un miracolo della natura”, dirà molti anni dopo, e nelle sue case, in Africa o in Danimarca, fiori non mancheranno mai, nei giardini ma anche nei vasi, la scrittrice si alza infatti alle cinque del mattino per raccoglierli ancora freschi di rugiada e farne sofisticate composizioni mescolandoli insieme a foglie di cavolo e erbe selvatiche.  Il centro affettivo della vita di Karen é il padre Wilhelm, un militare ma anche un viaggiatore e un poetico sognatore che ha vissuto per un periodo nei boschi americani, in Wisconsin, cacciando e cucinando il pane in una stufa da campo.  Wilhelm é amico, amato e rispettato, degli Indiani Chippewa che gli regalano il nomignolo che gli resterà attaccato per il resto della sua breve esistenza: Boganis, la nocciola. Sarà proprio questo padre amato e idolatrato a formare carattere e filosofia esistenziale di Tanne, quell’idea che il mondo sia diviso in due, la wilderness, la vita selvaggia ricca di grandi spazi aperti, di avventure e campi di battaglia, e la domesticity, la vita familiare, il focolare, dove si mescolano le voci delle donne e i vapori delle pentole.  In altre parole il maschile e il femminile.  E’ la prima e la più forte dicotomia con la quale

 

la scrittrice combatterà quotidianamente, oscillando sempre tra il desiderio di assomigliare al padre, e quindi uomo anch’essa, dedita alla caccia, ad una vita ricca di sorprese e povera di legami fissi, come quella che poi vivrà in Africa, moderna Diana a contatto con la natura.  D’altronde é lei stessa a rivelare che ha sempre preferito questa dea, amazzone e avventurosa, alla più bella Venere, regina incontrastata dell’Olimpo.  Altalenando dunque tra questa aspirazione e quella, altrettanto forte, di diventare il tipo di donna che il padre avrebbe sicuramente amato.  Non é perciò strano che, a soli undici anni, quando Wilhelm che ha da poco compiuto i cinquanta, si impicca nella sua casa di Copenhagen, l’infanzia calda e affettuosa di Tanne si interrompa bruscamente, lasciandole in cambio una ferita dolorosa che non si rimarginerà mai più, schierandola per sempre a fianco di quel padre da cui si sente abbandonata, dalla parte cioè dei sentimenti forti e violenti, dalla parte della libertà. Ciò che adesso le resta, ciò con cui si deve confrontare é la madre, Ingeborg e il ramo femminile della famiglia, quello che ogni estate, a luglio, per il compleanno della nonna,  si riunisce sotto il grande olmo in giardino,  quando la frutta é matura, le rose sono in fiore e fa abbastanza caldo da potersi tuffare nel Sound. E tutti insieme mangiano pollo arrosto e fragole bianche. Restano insomma, per l’appunto “i vapori delle pentole”.  A quel mondo, fatto di pregiudizi, di rispettabilità, di regole immutabili che nessuno oserebbe mai mettere in discussione, Karen non si arrende.  Ad un universo ordinato e borghese preferisce la compagnia della servitù, ama infatti far colazione con loro nella grande cucina, dove può bere caffè piuttosto che tè, riservato alle signore, e ascoltare i pettegolezzi dei pescivendoli e dei lattai, fornitori della casa.  Alla fredda razionalità danese preferisce il mondo magico, le storie e le leggende che Wilhelm le raccontava e ogni anno, a capodanno, sotto lo sguardo perplesso di Ingeborg, mette un piatto colmo di porridge fuori dalla porta, perché anche gli elfi, si sa,  devono mangiare, o la sfortuna si abbatterà sulla casa. E soprattutto non rinuncerà  la giovane Tanne, a visitare, ogni estate, la famiglia del padre a Katholm e ad affrontare pranzi pantagruelici, tanto diversi da quelli di Rungstedlung, pasti di otto portate, ciascuna accompagnata da due bottiglie di vino.

 

La storia vuole che la Blixen smetta di mangiare dopo aver contratto dal marito, dongiovanni impenitente, la sifilide, e che questa le abbia procurato ulcere e gastriti che le rendono la digestione un affare lungo e doloroso.  Ma é solo una parte della verità.  Tanne in realtà comincia molto presto a voler fare a meno del cibo.  La ragazza ama disegnare e si é messa in testa di studiare arte a Copenhagen, alla Royal Academy.  Così tutte le mattine prende il treno da Rungstedlung, nella borsa ha il pranzo preparato da Ingeborg e ogni giorno, testardamente, quel pranzo finisce fuori dal finestrino a nutrire i topi e gli uccelli della campagna.  La sera poi, tornata a casa, mangia pochissimo adducendo la scusa di aver troppo abbondato a pranzo.  E’ così che iniziano i suoi digiuni, con la certezza che attraverso la negazione del cibo, attraverso la fame e la sofferenza, potrà ottenere la grandezza a cui anela. E’ così che si diventa eroi, é così che si raggiunge l’estasi. Una battaglia che combatterà per tutta la vita, quella della  magrezza, non solo e non tanto per una questione estetica, il grasso infatti la rende infelice, ma per ragioni più profonde, filosofiche: “ “So che non devo essere grassa-scrive- é meglio per me soffrire la fame, perché essere soprappeso paralizza, soffoca il mio stile”.  La leggerezza della carne fa sì che la mente possa volare, libera da inutili e fastidiosi orpelli, nei cieli rarefatti della poesia e dell’arte.  E la sua magrezza é anche un memento perpetuo alla famiglia di sua madre, sta lì a contraddire la solidità degli Westenholz.  Eppure, e qui sta l’eccentricità di Tanne, lei il cibo lo ama, ne parla e ne scrive.  Ma i motivi di questo amore hanno poco a che fare con la passione e molto invece con lo spirito.  Sono ragioni che ci svelano la vera natura di questa scrittrice, così sensuale e così poco sessuale.  Da questo punto di vista possiamo ben dire che Il Pranzo di Babette sia il vero testamento filosofico-culinario della Blixen.  A cominciare proprio dalla scelta del nome, certo non casuale.  Babette é infatti nome di origine ebraica, una variante di Elisabetta, che a sua volta proviene da Elisheba, il cui significato é “promessa divina”.  Sono in pochi però a sapere che Elisheba era anche una principessa santa, figlia di Andrea d’Ungheria e patrona, pensate un po’, dei panettieri!  E la principessa, per tutta la vita, si occupò e soprattutto nutrì poveri e malati.

 

La storia di Babette ormai la sappiamo tutti: in un piccolo villaggio norvegese in riva al mare, Martina e Philippa, due sorelle zitelle, figlie di un pastore protestante, vivono una vita molto semplice e puritana.  Un’esistenza povera di piaceri, a iniziare da quelli della tavola: giorno dopo giorno infatti le due donne consumano solo scialbe zuppe di stoccafisso e pane bagnato. Al loro servizio c’é Babette, una profuga francese che le aiuta nelle faccende domestiche.  Dopo quattordici anni di onorato servizio Babette vince alla lotteria diecimila franchi francesi e con quelli, invece che tornarsene nell’amata patria, decide di regalare alla piccola comunità in cui vive un pranzo indimenticabile.  Il menu di questo pasto é passato alla storia, almeno a quella gastronomica: brodo di tartaruga, blinis Demidoff, cailles en sarcophage, al secolo “quaglie in sarcofago”, vale a dire nei vol-au-vent.  Babà al rum.  Tutto naturalmente innaffiato da vini straordinari: Veuve Cliquot del 1860, Amontillado e Clos Vougeot del 1864.  Per i bigotti abitanti del villaggio quel pranzo é una minaccia alla loro integrità morale, e come tale da osservare con sospetto. Ma é a tavola, si sa, che avvengono i miracoli, ad iniziare dalla famosa moltiplicazione dei pani e dei pesci.  Così quel cibo, creduto opera del demonio, si trasforma in un dono del paradiso.  Babette in quei piatti ci ha messo l’anima e presto, vinti da sapori e fragranze straordinarie, i commensali si sciolgono, imparano a comunicare, a godere di piaceri che arricchiscono non solo lo stomaco ma anche lo spirito.  E’ uno degli invitati, il generale Gallifet, a capire per primo il significato profondo di ciò che sta accadendo a quel desco: “  …. Questa donna é in grado di trasformare una cena in una sorta di storia d’amore, una storia d’amore di quella nobile e romantica categoria che non distingue più tra l’appetito del corpo e quello dello spirito o la sazietà”. E alla fine del pasto, durante il brindisi, l’ufficiale Loewenhielm esclama che in quelle ore felici: “ Misericordia e verità si sono incontrate, amici miei!  Rettitudine e felicità debbono baciarsi!” .  Babette dunque incarna alla perfezione il pensiero della Blixen: l’epifania mistica che gli invitati raggiungono alla tavola di Babette é la stessa che lei raggiunge in Africa, insieme a Denys, il grande amore della sua vita, morto in un tragico incidente d’aereo.  L’estasi dunque, e’ questo che Tanne cerca nella vita, é questo che dà un senso alle sue azioni.  Ma se agli altri indica il cibo, amato e curato, come mezzo per raggiungere il rapimento e l’ebbrezza, per lei invece il processo é inverso, esaltazione e incantesimo, può ottenerli solo smettendo di mangiare.  Essere magra, la persona più magra al mondo, perché la magrezza ispira, gli altri di certo, ma per primi sé stessi.  Essere esili per poter essere artisti.  Ed é proprio l’arte, per Tanne, a rendere unici, irripetibili gli esseri umani.  Sono la scrittura, la poesia, la pittura e naturalmente la cucina.  Babette é infatti una vera artista, straordinariamente cosciente di esserlo.  Quando Martina e Philippa scoprono che la cuoca ha speso tutti i soldi della vincita per la cena, ne sono costernate: “Cara Babette-le dicono- non dovevate dar via tutto quanto avevate per noi”. “Per voi?-replica lei- No. Per me…Io sono una grande artista, sono una grande artista mesdames…Povera? No.  Non sarò mai povera.  Ho detto che sono una grande artista.  Un grande artista mesdames, non é mai povero.  Abbiamo qualcosa, mesdames, di cui gli altri non sanno nulla”.  Solo allora le due sorelle capiscono: “Ma questa non é la fine, Babette, sono certa che questa non é la fine: in paradiso voi sarete l’artista che Dio intendeva foste.  Come incanterete gli angeli!”.

La battaglia della cuoca francese contro il puritanesimo é la stessa che combatte Karen, quella che le fa stringere amicizia con le aristocratiche sorelle Frijs,  che la invitano a partecipare ai loro voluttuosi pranzi orientali, per la disperazione della puritanissima zia Bess, l’ispiratrice delle due zitelle de Il Pranzo di Babette, per la quale quei banchetti in cui ci si adagia mollemente su cuscini di seta sono il massimo della lascivia. O che la fa raggiungere i parenti scozzesi con i quali va a caccia di selvaggina e raccoglie cozze, mangiate crude, bevendo champagne durante interminabili pic nic.  Se poi Tanne non ama particolarmente mangiare per via di quel suo tormentoso desiderio di magrezza, ama però cucinare e nel 1901, terminati gli studi, la madre le fa frequentare una scuola di cucina, per prepararsi a diventare moglie.  Molti anni più tardi poi, negli anni africani, durante un breve soggiorno danese deciderà di tornare ai fornelli, sotto la guida di Messieur Perrochet, cuoco e proprietario del Rex, il famoso ristorante del Bredgade, quartiere alla moda di Copenhagen.

 

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