MR. BERLUSCONI, L’AGLIO E UN PAESE DI “MORTI DI FAME”.

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MR. BERLUSCONI, L’AGLIO E UN PAESE DI “MORTI DI FAME”.

ieri sono stata alla Saffa Palatino, che per chi non è di Roma è un posto bellissimo, sul colle Celio, vicino appunto al Palatino, a Caracalla e al Circo Massimo.  Una delle parti più belle di Roma.  Ci sono andata perchè dovevo registrare un pezzo sul mio libro per il TG5 (che non so quando mai andrà in onda ma se lo scoprirò ve lo farò sapere) e la Saffa Palatino sono appunto gli studi dei telegiornali Mediaset.  Faceva caldo ed era ora di pranzo.  In quella zona non ci sono bar o locali, solo giardini e rovine, quindi Mediaset ha giustamente fornito i suoi uffici di un bar tavola calda.  Vi chiederete cosa c’entri tutto ciò e il sig. Berlusconi con cibo e cucina.  C’entra, c’entra.  Ho notato subito due particolari: il primo che il luogo era pieno di giovanotti rampanti perfettamente azzimati, completo grigio e cravatta fighetta, che si liquefacevano sotto il sole (ieri a Roma faceva molto caldo).  Qualcuno dovrebbe raccontargli che di rampante nel nostro paese non c’è più nulla e che è giunto il tempo di badare alla sostanza più che all’apparenza.  Il secondo particolare a colpirmi è stata la pretenziosità micragnosa della tavola calda: qualche verdura scondita, pasta scotta, una sorta di stufato annerito che galleggiava nel grasso e qualcosa che credo dovesse essere un tortino di patate piuttosto malriuscito.  Una tristezza desolante.  D’altronde si sa, Mr. B. non è mai stato un buongustaio.  I resoconti delle sue famose feste sono assai piccanti per ciò che riguarda il talamo ma molto più tristi per quello invece che attiene alla tavola.  Mi sono allora ricordata che il Cavaliere odia l’aglio, da sempre bandito non solo dai suoi pranzi privati, ma anche da quelli ufficiali e dagli aliti dei parlamentari di Forza Italia  che negli anni d’oro si videro recapitare nella cassetta delle lettere di Montecitorio, uno spray deodorante per la bocca, accompagnato, così scriveva Alessandro Mondo in un articolo uscito su La Stampa del 2 Giugno 1996, da una cortese ma ferma letterina che recitava: “ Egregio onorevole, certo di farle cosa gradita, la prego di accettare questo piccolo omaggio fresco e profumato per il palato, e di usarlo al fine di rendere sempre piacevoli gli incontri ravvicinati tra lei e il presidente di Forza Italia, onorevole Silvio Berlusconi, nonche’ dei suoi elettori”.

Ragionando su questa ossessione anti aglio di B. ho cercato di capire da dove venisse e sono giunta a queste conclusioni.  Il problema viene da lontano. Viene addirittura dalla fine degli anni ’50.

Qualcuno di voi forse ricorderà “Poveri ma Belli”, un film che allora pensate un po’ creò un certo scandalo ma che in realtà descriveva solo con una certa accuratezza l’Italietta di quegli anni, un Paese proletario di estrazione ma gia’ fortemente piccolo borghese nelle sue aspirazioni, e una citta’, Roma, con un centro storico ancora abitato dai ceti popolari che lo abbandoneranno poi definitivamente negli anni ’60.  Un Paese in cui le giovani generazioni si vergognavano a mangiare il “cibo di casa”, quello dei loro genitori, che non andava piu’ di moda perche’ considerato vecchio e ormai superato.  La tendenza del momento era quella di andare a pranzo fuori, nelle trattorie, magari al mare,  si beveva Coca Cola e non piu’ vino rosso, si consumavano gelati e non piu’ frutta, Campari e non piu’ spremute.  Le frittate con le cipolle, simbolo di umili e grossolane origini, erano adesso diventate imbarazzanti e il sugo della pasta doveva  essere appunto rigorosamente privo d’aglio, considerato condimento troppo plebeo e quindi volgare. 

30 anni dopo poi, nei rutilanti anni ’80 il nostro paese non  piu’ contadino e nemmeno operaio,  si avviava invece a diventare un grande paese di impiegati e bottegai.  La nostra identita’ culturale e sociale, gia’ in crisi da anni, perdeva cosi’ ogni punto di riferimento.  La trasformazione era di fatto  avvenuta e non restava che sancirla ufficialmente.   Come al solito a pensarci sara’ la televisione.  Mentre il Paese faticava ancora a riprendersi dallo choc della strage di Bologna, il 30 Settembre del 1980 prendevano il via le trasmissioni di Canale 5, la prima televisione commerciale italiana (ed ecco qui l’entrata in scena di B.) Era dunque  fatta, da quel momento in poi l’Italia fu obbligata ed aiutata a consumare e soprattutto ad acquistare di tutto e di piu’, in particolare cibo, bevande, gadget e prodotti da mostrare ed esibire in pubblico come simboli e segni distintivi della propria ricchezza e del proprio benessere, a conferma dell’avvenuto cambiamento di status sociale.  Il fatto era che, malgrado da piu’ parti si affermasse il contrario,  si era ormai ottimisticamente convinti di vivere in un Paese ricco, e l’onda lunga dell’edonismo reaganiano lambiva anche le nostre spiagge. Sono gli anni in cui, grazie anche al Cavaliere avevamo cancellato e dimenticato il “Paese dell’aglio”, ora considerato strumento del demonio, buono solo ad allontanare i vampiri della poverta’ e dei trascorsi stenti.  D’altronde chi piu’ di Berlusconi si era dato e si dava da fare per rimuovere dal nostro Paese ogni traccia della  passata miseria?  Gli Italiani dovevano ora pensare solo al presente e possibilmente al futuro, dimenticando di essere mai stati dei poveri pezzentoni, e godere, senza ansie e timori, delle possibilita’ e delle ricchezze, anche alimentari, in vendita sugli scaffali del grande Ipermercato.  In quest’ansia di rimozione il Presidente ha avuto  gioco facile, il nostro è un Paese dalla memoria cortissima, non si tratta pero’ di Alzheimer ma di una volonta’ ben precisa: vogliamo dimenticare la fame, ogni tipo di fame,  e non per paura ma per vergogna.  Nessuno di noi, adesso che viviamo in un’Italia ricca e sofisticata, (per la verità ora non c’è più neanche quella)che esporta bei vestiti, oggetti  raffinati e cibi prelibati, vuole ricordare di essere stato una volta un Paese sempliciotto e un po’ casereccio, il  Paese insomma dei “morti di fame”, un’immagine quella, umiliante e un pò imbarazzante.

E’ forse per questo che ancora oggi non sopporto chi entrando nelle case, mormori con fastidio “ Aprite le finestre, c’e’ puzza di soffritto!”.  O di cipolla, o di cavolo, o di aglio.  Il cibo non puzza mai, il cibo profuma.  A pensare che gli odori della cucina siano disgustosi e che sia  poco signorile  che per le stanze si srotoli l’inconfondibile aroma di aglio e  cipolle, sono quelli che,  oggi razza padrona, si affannano a dimenticare le loro e le nostre radici contadine, quelle per l’appunto da “morti di fame”, quasi fossero una vergogna da cancellare o un indelebile e imbarazzante marchio di disonore.  

 

 

 

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