QUEGLI IRRESISTIBILI ANNI ’60. ANCHE A TAVOLA.

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QUEGLI IRRESISTIBILI ANNI ’60. ANCHE A TAVOLA.

DA “COSI’ MANGIAVAMO” DI STEFANIA APHEL BARZINI-EDIZIONI GAMBERO ROSSO.

 

“Erano gli anni ’60, l’Italia, e Roma in particolare, furono travolte da una ventata di allegria e spensieratezza, quella che fu in seguito chiamata la “Dolce Vita”. 

L’omonimo film di Fellini, uscito proprio nel 1960, aveva suscitato scompiglio ed euforia.  Da una parte si erano schierate la Chiesa e l’Italia bacchettona di allora, dall’altra gli intellettuali e il mondo della cultura.  Posizioni e divisioni che ben riflettevano quelle piu’ ampie in atto nel Paese.  Quelli erano infatti anni di censure, gli anni  dei cosiddetti “mutandoni” in cui cartelloni, manifesti, cinema e Tv venivano tutti debitamente “riveduti e corretti”.  Anche i cameramen televisivi dovevano sottostare a regole ben precise: niente inquadrature del bacino o delle gambe delle signore e pochi indugi anche sulle labbra, sinonimo di sesso e quindi di peccato.  Esemplare a questo proposito fu il licenziamento di due scenografi che avevano avuto la pessima idea di usare come elemento scenico una cabina telefonica avvolta nella carta igienica.   Proibito infatti parlare o peggio ancora mostrare carta o assorbenti igienici, in quanto evocatori di “volgari intimita’”.   Quando poi a Cannes “La Dolce Vita” vince la Palma d’Oro, in patria scoppia la bagarre: “ Il film- afferma l’On. Tupini (democristiano doc), seguito a ruota dall’Osservatore Romano- getta un’ombra calunniosa sulla popolazione romana e sulla dignita’ della stessa capitale d’Italia e del cattolicesimo”.

Il fatto e’ che la dignita’ della “capitale d’Italia” non sembrava essere  affatto turbata da quell’”ombra calunniosa”.  La Roma di quegli anni viveva beata i piaceri e le delizie della sua “Dolce Vita”. Sono i giorni sfolgoranti di Cinecitta’, degli attori americani che si ubriacano nelle piazze romane, di Via Veneto. La Roma che Fellini, Pinelli e Flaiano vogliono raccontare nel loro film, quella “societa’ del caffe’” come scrive lo stesso Flaiano “ ……che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere.  E’ una societa’ che passato lo spavento della guerra fredda e forse proprio per reazione, prospera un po’ dappertutto.  Ma qui a Roma, per una mescolanza di sacro e profano, di vecchio e di nuovo, per l’arrivo massiccio di stranieri, per il cinema, presenta caratteri piu’ aggressivi, sub-tropicali”.  Flaiano racconta come Via Veneto, l’epicentro di questa Roma festaiola, fosse cambiata da quella da lui vissuta negli anni ’50, quando si arrivava a piedi da Villa Borghese per incontrare nella mitica Libreria Rossetti, personaggi come Napolitano, Saffi, Brancati, Maccari e Cardarelli.  Una strada quasi priva di traffico, tranquilla e un po’ strapaesana in cui dal negozio del fornaio salivano i profumi del pane e delle brioches ancora calde, e dove scrittori, poeti e giornalisti consumavano insieme il rito dell’aperitivo. 

Negli anni ’60 quella via Veneto era molto cambiata e non ci si incontrava piu’ nelle librerie ma nei caffe’ : “……….Ora che sta arrivando l’estate salta agli occhi che questa non e’ piu’ una strada, ma una spiaggia.  I caffe’ che straripano sui marciapiedi……hanno ognuno un tipo diverso di ombrellone per i loro tavoli, come gli stabilimenti balneari di Ostia……Alcuni hanno nappe e festoni di paglia, come nelle isole Hawaii……Le automobili scivolano come gondole a teatro…..e il pubblico prende il fresco e si muove su e giu’ con l’indolenza delle alghe e la falsa sicurezza dei coristi……..anche le conversazioni sono balneari, barocche e scherzose, e si riferiscono a una realta’ esclusivamente gastro-sessuale…..”

Mentre questa Italia si dava alla pazza gioia, il resto del Paese oscillava ancora indeciso tra desideri di status symbol impossibili e realta’ ben piu’ prosaiche.  Sara’ insomma pur vero che tutti avrebbero voluto come ne “Il Boom”, memorabile film di quegli anni, pasteggiare ad aragoste e caviale russo,  (che pero’, come sostiene un’invitata, sa di baccala’) oppure come ne “Il Sorpasso” altro film cult dell’epoca, lanciarsi sulla spider a folle velocita’ solo per finire a mangiare una zuppa di pesce o un piatto di lasagne al pesto in qualche localita’ marina alla moda,  pero’ molto piu’ prosaicamente ci si accontentava  spesso della gita fuori porta, sulla 600 multipla carica fino all’inverosimile di figli, mogli, nonne e suocere.   Al posto dell’aragosta il piu’ banale pollo arrosto, vero simbolo di quegli anni e le mete raggiunte non erano tanto le spiagge mondane quanto qualche prato di campagna dove si strofinava, fino a renderla scintillante, l’automobile, inconfutabile prova dell’avvenuto avanzamento tecnologico.  Come annotava sempre il buon Flaiano, iniziava proprio in quegli anni, l’epoca dei “… gomiti fuori dallo sportello, segno di eleganza e di lunga pratica alla guida”, quei gomiti  che pur causando dolorosi reumatismi annunciavano pero’ l’arrivo della primavera. 

Dalle nostre  tavole scomparirono o si ridussero comunque drasticamente, il brodo (ormai soppiantato dal dado), le polente, il farro, l’orzo, il pane nero, tutti quegli ingredienti “poveri’ di cui si era fatto grande consumo negli anni precedenti.   Salirono invece alla ribalta il pesce, in particolar modo le vongole e i frutti di mare, il pollo che allora faceva grande eleganza, le omelette flambe’ (ma tutto cio’ a cui si potesse dar fuoco andava tuttavia bene), le insalate un po’ pazzarelle, dette per l’appunto “capricciose”, che facevano molto “giovane, giovane”, formaggi e formaggini spalmabili,  e piu’ di ogni altra cosa tutta quella carne che finiva in “ini” o in “ine”, diminutivi che in societa’ suonavano meglio: involtini, fegatini, spezzatini, brasatini, fettine, lombatine, scaloppine e piccatine.

  A rivoluzionare veramente le nostre mense fu pero’ l’ingresso dei cibi industriali.  Si abbatterono su di noi come schiere compatte di soldatini di piombo, crackers e formaggini,  merendine e succhi di frutta in bottiglia, bibite frizzanti e salatini, biscotti e salamini, gelati confezionati e caramelle.  A reclamizzarli e a lanciarli sul mercato, ci pensava poi il solito Carosello che in quegli anni viveva il suo momento d’oro.   Nel suo rarefatto universo non esisteva piu’ neanche un contadino, le famiglie erano improvvisamente divenute tutte urbane, non c’era un operaio neanche a cercarlo con il lanternino (ma che lavoro fanno allora tutti gli Italiani?).  Non esistevano poveri e non c’erano vecchi,  con l’unica eccezione della Nonna Doria, un’anziana signora segregata in cucina dagli avidi nipotini, dove preparava instancabile  “ con la ricetta della nonnina, latte, zucchero e fior di farina, i biscotti Doria, un nome da imparare a memoria”.  Un mondo dove le donne si dividevano in due sole categorie: quelle giovani, fresche, carine, eterne prime della classe, brave in tutto cio’ che intraprendevano, dalla pulizia della casa alla cottura della frittata, e percio’ assolutamente insopportabili, come l’esasperante Olivella, quella che “ bon, bon, bon, bon, tutto bene le va e bon, bon, bon, bon, tutto bene le andra’- perche’ usava- l’olio Bertolli che vuol dire qualita’” e le altre, quelle povere disgraziate, racchie e  segaligne, candidate ideali all’epatite a, b e c, per via dell’invidia senza tregua che le divorava il fegato, come la povera Maria Rosa, che invece Bertolli si ostinava a non usarlo.  A me Olivella faceva venire i brividi, tutte le mie simpatie andavano a quella sfigata di Maria Rosa, e l’olio Bertolli non l’ho mai voluto acquistare. 

Persino le “location” di questi Caroselli, erano esotiche.  Si passava da “Lassu’ nel Montana tra mandrie e cowboy”, dove “c’era sempre qualcuno di troppo fra noi”, alla “Pampa sconfinata dove le pistole dettavano legge” e dove Carmencita sei gia’ mia, chiudeva il gas e  veniva via, per bersi un caffe’ Paulista con il Caballero Misterioso.  Per non parlare della Valle d’Argento, nella quale le stelle erano tante, milioni di milioni, ma solo quella di Negroni voleva dire qualita’.  Per finire poi in bellezza con l’irraggiungibile Pianeta Papalla, in cui dal terreno non nasceva grano ma spaghetti gia’ belli e fatti. 

Tra tanti esotismi, a tranquillizzare gli Italiani e a colmare la loro voglia di tenerezza, in quegli anni a cavallo tra entusiasmi, speranze, timori e ansie di ritorno, ci pensava la Invernizzi, quella dei formaggini, e la sua scuderia di pupazzi gonfiabili, Ercolino Sempre in Piedi, Susanna Tutta Panna e soprattutto l’incomparabile Mucca Carolina, quella che appeso al collo aveva  un campanon, produceva latte a profusion e valeva certo dei milion, tolon, tolon, tolon, tolon.  Quella mucca, presente nelle stanze di tutti i bambini di allora, era fabbricata a Cervarese da un esercito di sole donne che dopo la lunga giornata in fabbrica si precipitavano a casa per poter ammirare in Tv le gesta della loro creatura.  Carolina produceva formaggini e soprattutto tanto latte, quello stesso latte sponsorizzato e propagandato in quegli anni da una massiccia campagna promozionale, sostenuta dal Ministero dell’Agricoltura.

 Fu infatti proprio l’allora ministro Rumor ad inaugurare a Roma il “Bar Bianco” un locale dove non si consumavano ne’ alcolici ne’ tantomeno caffe’, ma bianchissimi aperitivi, digestivi e  stimolanti, tutti rigorosamente a base di latte.  E sara’ appunto questa campagna a suggerire a Fellini l’idea per l’episodio di Boccaccio ’70, in cui una sensuale Anita Ekberg sorrideva ammiccante dall’alto  di un gigantesco cartellone pubblicitario invitando gli Italiani, al grido di : “ Bevete piu’ latte, il latte fa bene, il latte conviene a tutte le eta!” a consumare ettolitri della bianca bevanda”.

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