VIRGINIA WOOLF E IL CIBO: ODIO O AMORE? PARTE 3 E ULTIMA

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VIRGINIA WOOLF E IL CIBO: ODIO O AMORE? PARTE 3 E ULTIMA

DA “LA SCRITTRICE CUCINAVA QUI” DI STEFANIA APHEL BARZINI-EDIZIONI GRIBAUDO.

 

“Virginia  ha deciso di rivoluzionare la cucina di Monk’s House, rifà i muri, ridipinge le pareti, compra un frigorifero e soprattutto acquista nuovi fornelli. Di fronte a tutti questi cambiamenti Nelly ha reazioni ondivaghe, da una parte non può non apprezzare i miglioramenti ma dall’altra si preoccupa che tutto questo gran da fare sia per lei foriero di cattive notizie.  E ha ragione.  La nuova cucina é per Virginia una vera conquista, lei che ha sempre  sognato un mondo incantato dove si gira un manico e bistecche di montone saltano fuori già cotte in un piatto, che anela a giornate senza servitù dove la vita domestica possa essere controllata da una sola donna, finalmente vede il suo sogno realizzarsi.   E’ pronta a sbarazzarsi di cameriere e cuoche malmostose e impossessarsi dei suoi nuovo fornelli: “Quello che davvero mi interessa-scrive- é la mia nuova cucina.  In questo momento sta preparando la mia cena in piatti di vetro, alla perfezione spero, senza odori, sprechi, o confusione, basta girare le manopole, e c’é un termometro.  Così mi vedo più libera, più indipendente, capace di venire qui con una bistecca nella borsa e vivere senza aiuti.  Penso ai piatti che cucinerò, i ricchi stufati, le salse.  Gli avventurosi, strani piatti con un po’ di vino.  E devo fare attenzione, come un bambino di non fare troppo rumore quando gioco”. Non fa che parlarne di questa nuova cucina, “Devo andare a vedere la mia stufa che cuoce il prosciutto- esulta, e ancora- La mia stufa a petrolio sforna cibi caldi a tutte le ore”. Nelly ha i giorni contati.  All’ennesima crisi, Virginia, per cui i drammi casalinghi sono da sempre noiosi, sordidi e un po’ degradanti, dice basta una volta per tutte. Nelly esce dalla vita di casa Woolf senza neanche salutare, portandosi appresso tutti i libri di cucina e i copri sedia.  Per Virginia é la fine di un incubo e sospetto che anche Nelly abbia tirato un sospiro di sollievo.  Adesso la scrittrice é sola nella calma della sua cucina, senza nessuno che strascica i piedi, sbatte casseruole, grida che la cena é servita.  Di Nelly, di quella che comunque per ben diciott’anni ha egregiamente soddisfatto gli appetiti dei signori Woolf e dei loro amici, Virginia scriverà solo acide cattiverie: Nelly é una poveretta, patetica, vanitosa, lamentosa, cattiva, egoista, detestabile.  Quanto é meglio la simpatica e intelligente Annie, la nuova cuoca che la sostituirà per breve tempo, come é composta, semplice, umile.  Come ha fatto, si chiede, a sopportare così a lungo una presenza sempre borbottante, mai più, mai più si metterà in una simile situazione.  “Felicità-scrive-é essere senza cuoca”. Gli ultimi anni di vita saranno finalmente liberi da questa schiavitù e nel 1934 arriva Louie Everest, cuoca e cameriera a ore che entra in casa la mattina, prepara la colazione e la serve a letto, poi lava i piatti della sera prima, fa la spesa, pulisce, all’una suona un campanello e porta il pranzo a tavola, quindi lava i piatti, prepara la cena e se ne torna a casa sua.  Anche lei sarà spedita ad una  scuola di cucina, organizzata dalla Brighton Corporation, prenderà il diploma in Advanced Cooking e imparerà i francesismi tanto cari ai signori Woolf: creme, salse fresche e soufflè.  Ma ora che Virginia potrebbe finalmente divertirsi con il cibo, adesso che potrebbe giocare a inventare piatti e ricette, ecco che scoppia nuovamente la guerra e con essa torna anche la malattia, che questa volta non le lascerà scampo.  Il 28 marzo 1941 la scrittrice scrive un biglietto a Leonard: “Sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che chiunque avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se chiunque avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi. V.”.  Poi esce di casa, si riempie le tasche di sassi e si getta nelle acque del fiume Ouse. 

 

E dunque, odio o amore, quello di Virginia per il cibo, per il mangiare, per la cucina? Lascio a voi la risposta.  Che non é semplice.  Così come non é semplice Virginia.  E’ vero, é lei a scrivere con un certo sarcasmo che un giorno Louie, la cameriera, la informa che il fegato d’agnello é più tenero di quello di vitella, riempiendo così un vuoto nella sua conoscenza del mondo.  E a raccontare che ha comprato carne e pesce a High Street, un affare degradante ma abbastanza divertente, perché odia la vista delle donne che fanno la spesa, compito che prendono troppo sul serio.  Ed é sempre lei  a commentare, sollevando il sopracciglio,  che c’é gente che crede che la vista di un buon piatto di carne aggiunga alla vita un pizzico di sorpresa, di avventura, così come accade a lei quando riceve la posta o i giornali.  E’ sempre lei poi a scrivere che i proprietari di ristoranti sono gente ordinaria, salvo però andare a cena a Chartres in un ottimo locale e raccontare che lo chef é giovane e grazioso, che cucina una salsa fantastica con panna, fagioli francesi, mostarda, sale e vino, che la cena é stata ricca e ben pensata, che ha mangiato funghi con la panna e che ha osservato come un bravo cameriere serve i piatti, con infinito rispetto e attenzione, come stesse maneggiando qualcosa di prezioso.  Certo, Virginia, una sera che ha preparato  la cena da sola,  scrive a Vita Sackville West, l’amica aristocratica,: “Ho dovuto abbassarmi al lavandino”, però subito dopo aggiunge, orgogliosa come una bambina:” Ho fatto tutto io! I piselli, le patate e anche una torta”. E un’altra volta arriva addirittura a dire, parlando dei fornelli nuovi che la affrancano dalle cuoche: “Ho preparato cotolette di vitello e il dolce oggi.  E ti assicuro che é meglio che scrivere questi libri idioti”.  I suoi libri, i suoi romanzi, i suoi racconti sono ricchi di cibi, di cuoche, di piatti, di ricette, di annotazioni sul mangiare e sullo scrivere del mangiare, come quella che leggiamo in Una Stanza Tutta per Sé: “ E’ curioso come gli scrittori tendano a farci credere che i pranzi siano invariabilmente memorabili per qualcosa di molto spiritoso che vi si é detto o per qualcosa di molto saggio che vi é accaduto.  Ma raramente essi dedicano qualche parola al racconto di ciò che nel corso di quei pranzi si é mangiato: Fa parte della convenzione narrativa non nominare minestra, salmone, e carne d’anatra, come se minestra, salmone e carne d’anitra non avessero la benché minima importanza, come se nessuno mai fumasse un sigaro o bevesse un bicchiere di vino”.

Ma soprattutto ci sono le sue straordinarie allegorie, perché Virginia ama raccontare stati d’animo, paesaggi, persone, con le parole del cibo.  Così il venditore di focacce ha gli occhi grigi da pesce bollito.  Il corpo di una ragazza é simile al più soffice lardo, un’altra ha gli occhi del colore della mora del gelso e un uomo sembra un cavolfiore bollito.  Una donna ha la faccia bianca e larga da muffin e un’altra ha la forma di una pera. 

Saint Ives, il paese della sua infanzia, ha il colore delle cozze e delle patelle, come un pugno di ruvidi crostacei abbarbicati insieme sopra un muro grigio.  Guardando i campi di grano dalla sua finestra pensa che:” Il grano, ora é disposto in file di tre quattro o cinque massicce focacce gialle, ricche, pare, d’uova e di aromi; buone da mangiare”.  In Grecia gli scogli visti dall’alto le sembrano una pera malamente sbucciata e durante un temporale “Gli alberi sono color cioccolato dal lato del vento e le piccole foglie sembrano patate tagliuzzate”. Un giorno Virginia immagina di stare in un acino d’uva,  un altro vive come un insetto in un biscotto, in un altro ancora si sente molle come un pezzo di maccherone. 

Una vita allora che sembra oscillare tra estremi, cibo ti amo, cibo ti odio, cibo ti amo e ti odio.  Poi mi sono capitati sotto gli occhi due brani di lettere scritte alle amiche.  Due brani colmi di grazia e di leggerezza:

In uno Virginia racconta di aver mangiato una pera: “ Ho appena mangiato una pera-dice- calda di sole con il sugo che colava fuori”.

Nell’altro la scrittrice invita un’amica a passare una giornata insieme: “ Domenica vieni a trovarmi?…Tu, ad ogni buon conto, vieni all’una, per pranzo, e qualcosa si inventerà.  Più di tutto mi piacerebbe fare una gran mangiata in qualche casa del Settecento in riva al fiume, poi una passeggiata tra i narcisi e i fiorellini azzurri.  Poi un’altra mangiata, in una grande locanda in cima a una collina, con delle grandi vetrate e un usignolo di fuori.  E per finire ritorno al chiaro di luna attraverso gli orti”.

E allora ho capito tutto”. 

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